Il
colore dell’inquietudine è verde. Quello della riflessione giallo. Insieme
danno il colore blu. Il colore del tormento.
De
Angelis si sentiva blu. In tutto e per tutto.
Mani,
piedi, torace, cuore, polmoni.
Blu.
Era tormentato dai suoi pensieri, dal suo volere a tutti i costi mettere le mani su colui che lo stava portando nel proprio abisso.
Era tormentato dai suoi pensieri, dal suo volere a tutti i costi mettere le mani su colui che lo stava portando nel proprio abisso.
Lui,
l’abisso, lo aveva già visto.
Nero,
buio, violento.
E non voleva tornarci ma, sapeva che, se non avesse fermato prima di chiunque altro, quel mostro, si sarebbero incontrati giù, nel fondo di quell’abisso.
E non voleva tornarci ma, sapeva che, se non avesse fermato prima di chiunque altro, quel mostro, si sarebbero incontrati giù, nel fondo di quell’abisso.
Le
giornate passavano e nulla veniva a galla in più di quello che erano riusciti a
mettere insieme. Nessun altro piccolo indizio, nessuna altra piccola
macchiolina nel cammino schizofrenico e pazzoide che stava percorrendo. Nessuna
notizia da nessuno dei ragazzi di De Angelis che battevano tutto il giorno le
strade della metropoli lombarda.
L’ultimo
tentativo era rimasto nel pezzo che Moggia, il giornalista amico
dell’ispettore, avrebbe pubblicato il giorno seguente.
Un
articolo che metteva in evidenza alcuni dei particolari venuti a galla, che
tracciava una parte del profilo psicologico dell’assassino ma senza scoprire
troppo le carte. Lo stretto necessario per stimolarlo, stuzzicarlo, farlo uscire
allo scoperto magari portandolo a compiere un passo falso.
Insieme
a Tolli continuava a passare da commissariato a commissariato cercando gli
agenti che avevano seguito le vecchie indagini degli altri omicidi. Cercava chi
ricordasse qualcosa in particolare.
Leggevano
rapporti in cerca di piccoli particolari che potessero essere utili, parlando
con quei pochi che ancora erano in servizio nelle stazioni e non fossero in
pensione, morti o trasferiti.
Novembre
iniziava a farsi più fresco e piovoso, le luci della città si accendevano
ancora prima della sette di sera, le persone tornando a casa tenevano la testa
piegata verso il basso più del solito, come ad arrendersi a quella che stava
iniziando.
La
stagione più difficile e fredda dell’anno.
La
stagione della quale De Angelis voleva la resa dei conti con quella figura
deviata e ossessionata dal sangue.
Erano
ormai quasi quattro giorni che giravano dappertutto. In città, fuori Milano,
lontano da qualsiasi tentativo di risoluzione finale. Soltanto cercando di
aggiungere indizi, tasselli, particolari ad un progetto che iniziava a sembrare
impossibile da realizzare anche a loro.
“Mì
so’ minga chi l’è può esser lù Claudio. So soltanto che sembra sempre una
persona diversa nelle poche testimonianze che aveém reccolt’. Una volta l’è alto,
l’altra basso, poi bianco poi neghèr…son perplesso” - con tutta la sua fedeltà e bontà d’animo,
Marco Tolli iniziava a credere davvero che potesse essere una soluzione
impossibile da concludere.
“Marco
lo so. Non saprei dove sbattere neanche io la testa in questo momento. Abbiamo
forse troppe informazioni, idee, supposizioni, pensieri o frustrazioni da
riordinare – accese un cigarillo e diede una lunga aspirata, concentrata,
pensierosa. Nella macchina si sentiva soltanto il rumore dello sfrigolìo della
brace che ardeva – però so con certezza che la sua pausa non durerà ancora a
lungo e, mettendogli pressione, lo possiamo portare a sbagliare. A commettere
l’errore fatale. A portarci da lui.”
“Ne
sei convinto vero ?!”
“Domani
l’articolo di Moggia uscirà ed allora oltre all’allarme che si insinuerà nella
gente, la pressione mediatica aumenterà. Avrà una reazione. Qualsiasi essa sia
lo farà cadere in errore. Deve sbagliare ! E’ troppo tempo che opera soltanto
in estrema perfezione, prima o poi deve sbagliare! E il “poi” sarà la prossima
mossa, la prossima violenza. Me ce gioco i coglioni”
“Vedèm
che succederà, ti dico in sincerità, le mie di speranze si affievoliscono”
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Il
colore del giorno diventava grigio chiaro, statico, acre. Tutta la città si muoveva
con quel ritmo particolare, quasi di regressione ad una condizione remissiva su
quello che si stava per posare su Milano.
Le
strade umide, confuse su ciò che accadeva, portava negli occhi delle persone
sguardi rassegnati, di vittime e complici inconsapevoli di tutto ciò che
sarebbe successo.
Una
città concentrata su sé stessa, cinica, competitiva, dove non c’era spazio per
la sorpresa ma solo per la sfida.
Proprio
quella sfida che come capitale morale portava ogni giorno sulle coscienze della
Nazione. Quella Nazione in defibrillazione, in decomposizione, odorante di
formaldeide eppure ancora viva, come i vegetali che la governavano facendo
finta di farlo, grigi anche loro.
Come Milano.
Come Milano.
Il
troppo oscurarsi laddove l’apparire non si confutava con l’essere.
Questo
era lo scenario che guardava al di là della vetrina del suo negozio. Fermo,
seduto alla scrivania del suo ufficio sul retro. Il mento appoggiato alla mano,
con il braccio appoggiato al gomito, appoggiato sulla scrivania. L’altra mano
in tasca nella giacca di tweed. Il pollice e l’indice che giocavano con un lobo
dell’orecchio di Linda, la sua ultima amata e divorata.
Ah,
Michela.
Aveva
iniziato da meno di una settimana a partecipare alla sua vita, sempre in
disparte, a distanza.
Dall’uscita
dell’ufficio fino a casa.
Da
casa al suo locale preferito dove le piaceva “fare” l’aperitivo. Milanese. Il
rifugio dei pavidi, di coloro i quali soltanto per rivolgere la parola alla
loro preda, assumevano alcool. Ma poi allora che caccia sarebbe stata ?!
Una caccia alterata, fredda di sudore malato, colma di pallore genitale da spremere per sentirsi vivi.
Una caccia alterata, fredda di sudore malato, colma di pallore genitale da spremere per sentirsi vivi.
Una
sera l’aveva vista appartarsi con un uomo con cui aveva appuntamento. Non lo
aveva portato a casa sua, no. Avevano iniziato in macchina.
Lui,
da almeno 30 metri di distanza, parcheggiato sul lato opposto del marciapiede,
li aveva visti uscire. Li aveva seguiti e spiati a distanza. Loro avevano
iniziato a baciarsi, accarezzarsi. Quando la testa di lei si era abbassata, lui
era sceso dalla sua auto e si era nascosto dietro la loro, dalla parte
posteriore dell’auto dell’accompagnatore occasionale e, lentamente si era
eretto per guardare meglio cosa succedesse dentro l’abitacolo.
I
capelli di Michela che si muovevano seguendo il movimento in su ed in giù della testa, il
vetro lato guidatore che si iniziava ad appannare. Era ciò che voleva vedere,
quello che si aspettava da loro, ma stava rischiando, doveva ritornare in
macchina e così fece.
Seduto al volante mentre continuava a spiarli, ebbe un’erezione. Subito si punì colpendosi con un pugno proprio sul membro eccitato ma, nonostante la forza di volontà, non riusciva a smettere. Quella donna iniziava a precludere ogni suo autocontrollo. La desiderava più che mai.
Seduto al volante mentre continuava a spiarli, ebbe un’erezione. Subito si punì colpendosi con un pugno proprio sul membro eccitato ma, nonostante la forza di volontà, non riusciva a smettere. Quella donna iniziava a precludere ogni suo autocontrollo. La desiderava più che mai.
Il
tempo stava esaurendosi, non poteva continuare ad umiliarlo così, rendendolo
complice e dipendente da ciò che sessualmente in quel momento rappresentava per
lui. Doveva agire prima possibile o avrebbe perso qualsiasi controllo durante
le sue perlustrazioni.
Mise
in moto e si diresse verso la zona di Milano dove sicuramente avrebbe trovato
la soluzione a quel suo malessere. La zona dove il confine fra donna e uomo era
molto labile. A scelta di chi voleva tastarne la consistenza.
Mentre
guidava si immaginava la Lama fredda e lucida che incideva la marmorea pelle di
Michela.
Fra le ascelle, sotto la quinta vertebra, con un taglio semicircolare e netto, avrebbe potuto amputare ed asportare un seno intero. Metterlo nel contenitore frigo e portarselo a casa. Dove ne avrebbe approfittato tutte le volte che avrebbe voluto.
Fra le ascelle, sotto la quinta vertebra, con un taglio semicircolare e netto, avrebbe potuto amputare ed asportare un seno intero. Metterlo nel contenitore frigo e portarselo a casa. Dove ne avrebbe approfittato tutte le volte che avrebbe voluto.
Le
labbra. Quelle erano qualcosa di particolarmente eccitante.
La loro funzione una volta asportate però sarebbe stata inutile. O quasi.
La loro funzione una volta asportate però sarebbe stata inutile. O quasi.
Di
nuovo eccitato accostò di fianco ad uno dei freak di zona Monumentale, tacco
15, parrucca e nudità in mostra. Lo fece salire e si diressero verso il motel
ad una stella di Via Principe Eugenio. Il motel di “servizio” nel quale far
cigolare la parte perversa dell’anima, la parte più perversa del proprio
essere. Lui prese la chiave numero 16 e salirono verso la tana dove esternare
limiti e passioni.
“Allora
facciamo come al solito amore ?!” chiese il transessuale.
Lui
non rispose, aveva una musica in testa, alta, che lo assordava. La sua musica ….
“…her husband was a hard working man just
about a mile from here his head was found in a driving wheel but his body never
was found my
girl my girl don’t lie to me tell me where did you sleep last night ….”
Iniziò
a slacciarsi la cintura lasciandosi calare i pantaloni. La musica aumentava
ancora di volume.
Una
musica che soltanto lui poteva sentire…
“…in the pines in the pines where the sun don’t ever
shine I would shiver the whole night through my
girl my girl where will you go I’m going where the cold wind blows…”
La
bocca umida e calda del trans iniziava a cingere il suo membro ingrossato ma
non provava nessun piacere. Non provava nessun dolore. Nulla. Pensava soltanto
a Michela ed era per quello che era eccitato. Non
riusciva a togliersela dalla testa …
“my girl my girl don’t lie to me tell me where did you
sleep last night…”
Mise
la mano sotto al mento della creatura inginocchiata di fronte a lui, lo sollevò
impercettibilmente sfilandole l’uccello dalla bocca.
“Guardami”
disse.
La testa si mosse all’indietro, la fronte puntò verso l’alto, il rossetto sbavato, un po’ di saliva ai lati della bocca, il sorriso che si allargava per compiacerlo.
La testa si mosse all’indietro, la fronte puntò verso l’alto, il rossetto sbavato, un po’ di saliva ai lati della bocca, il sorriso che si allargava per compiacerlo.
La
Lama tagliò di netto la carotide. La bocca si aprì in un rantolo, gli occhi si
intristirono, si riempirono di lacrime e solitudine.
Lui si
inginocchiò di fronte alla creatura della notte facendosi inondare dagli
schizzi di sangue che a fiotti gli uscivano dal collo. Michela nella mente.
Gli
piantò la Lama in mezzo al petto. Trascinò lo squarcio fino all’addome. La
sfilò leccandola.
Il
liquido rosso e caldo dal sapore rugginoso nella bocca. Si alzò in piedi, con
la pianta del piede lo scalciò sulla fronte facendolo cadere a petto in su. Lo
squarcio si illuminò, lui si masturbò finendo l’opera orgasmica sul corpo
martoriato.
Entrò
in bagno per lavarsi, si tolse i vestiti e li mise nel water bruciandoli mentre
entrava in doccia.
Iniziò a strofinare forte, sempre più forte con la saponetta di scarsa qualità in
dotazione nell’hotel.
Sfregò fino ad arrossare tutta la pelle del pube e del
petto.
Voleva punirsi ancora di più, ancora più forte.
Piegò all’indietro la
testa, aprendo la bocca sotto al soffione della doccia. Voleva sentire cosa si
provava affogando. Tappandosi il naso con la mano e continuando a strofinare
forte sul membro.
Quando
ebbe finito e fu esausto nel punirsi, uscì fuori nudo, con una salvietta da
bagno intorno alla vita. Il portiere, piedi incrociati sulla scrivania e
sigaretta accesa fra le labbra, neanche alzò lo sguardo dalla piccola
televisione in bianco e nero appoggiata sul bancone.
Lui, scalzo, attraversò la
strada, fece lampeggiare le luci dell’auto togliendo l’immobilizer, salì e
iniziò a guidare verso casa.
Stanco.
Con il suo senso di colpa e perversione
appagato.
Con la sua voglia di sangue soddisfatta.
Sempre
pensando a Michela.